Sanremo 2017, la rivincita dell’esperienza e la fine delle Nuove Proposte

Quando c’è una come Alice Paba, anni 19 e un solo singolo – passato anche inosservato -all’attivo nei Campioni e l’anno scorso uno come Ermal Meta ha dovuto rimettersi in gioco passando dai Giovani, qualcosa non funziona. La seconda serata del Festival non ha fatto altro che confermarlo. Quando era stata pensata, la categoria delle Nuove Proposte, voleva dare uno spazio a parte ai tanti ragazzi che si affacciavano nel mondo della musica senza per forza doversi confrontare con chi di esperienza ne aveva da vendere. Oggi, che il panorama musicale è completamente cambiato, con i talent show che diventano subito vetrina mediatica, dividere gli artisti in gara su quella base non ha più senso, soprattutto se non vale più nemmeno l’unico criterio che li poteva differenziare ovvero un background discografico.

Resta difficile, capire il perché, per esempio, artisti che arrivano dalla stessa edizione dello stesso programma sono costretti a percorsi diversi. Può bastare la vittoria nel più scarso talent show italiano – The Voice – per essere più big per esempio di una come Marianne Mirage, che ha alle spalle una formazione artistica importante, collaborazioni altrettanto forti e una serie di partecipazioni ad eventi di punta? O di gente come The Niro, Zibba o i La Rua, che hanno storie musicali diverse, ma comunque già di peso?

Il risultato è una serata come quella di ieri, dove pezzi radiofonici sono andati a casa a beneficio di produzioni molto tradizionali e  nel contempo, chi è stato sbattuto nel frullatore dei Campioni senza alcuna esperienza ha pagato dazio. Vale per la giovane cantante di Tolfa, ma vale anche per Giulia Luzi, personaggio televisivo e valida interprete da studio, che però su un palco come quello di Sanremo ha mostrato evidenti limiti. Ma vale anche – lo andiamo dicendo da anni – per una come Bianca Atzei, la cui presenza fra i Campioni è giustificata soltanto dal fatto di incidere per l’etichetta del più grande editore radiofonico privato, ma che messa ancora una volta alla prova col palco ha fallito soprattutto vocalmente (il giudizio sul brano è soggettivo). Il ritorno della categoria “Emergenti” che fu pensata dall’allora direttore artistico Adriano Aragozzini nel 1989, destinata a quegli artisti “di mezzo” non ancora abbastanza big ma non più esordienti, potrebbe essere una buona soluzione. Meglio ancora sarebbe il ritorno a quel girone unico che ad eccezione dell’edizione senza major del 2004, manca a Sanremo dal 1983: col supporto delle etichette, non c’è il rischio di fare il festival  “degli sconosciuti” e si darebbe l’opportunità a chi ha le carte in regola per vincere o fare bene, di giocare alla pari con gli altri. Soprattutto, consentirebbe di fare selezione e concedere il palco di Sanremo, l’ultimo grande palco musicale che ci è rimasto, a chi se lo merita o a chi può farne buon uso.

Il ruggito dei leoni. Perché il fatto che Sanremo sia ormai per tanti artisti della nuova generazione soltanto il trampolino di lancio per il disco e non sia più degno di una preparazione adeguata è evidente. Anche ieri sera le cose migliori sono arrivate dagli evergreen: una Paola Turci in forma smagliante, con un pezzo alla Nek ben scritto e ben cantato, fresco e moderno e una scollatura da fare invidia alle ventenni; un Michele Zarrillo che tornava dopo tanto tempo sulle scene e che pur restando fedele al suo stile ha proposto un brano orecchiabile e una grinta notevole. Oppure le cose migliori sono venute da quei pochi giovani che nel Festival credono veramente, come Michele Bravi. Arrivato in punta di piedi, con un pezzo non proprio ben accolto dalla critica e invece autore di una performance pulita, senza emozione e perfettamente intonata: ha saputo dare luce ad una ballad dal sapore mengoniano senza cadere nella tentazione di fare il Mengoni. Ed ha vinto, come la prima serata ha vinto Elodie, un’altra arrivata al festival senza squilli di trombe e anzi, pure con qualche pregiudizio  sulle spalle.

Chi se ne frega della musica. Sanremo è un palco importante, ma è spietato, non lascia scampo, ti mette a nudo. Così può succedere che persino uno bravo come Sergio Sylvestre si perda, fregato dalla lingua italiana, che del resto ha imparato da quando è qui, ma che non è la sua lingua madre. Quando poi hai anche un pezzo difficile, che al primo ascolto può non funzionare, le cose si complicano. La fanbase probabilmente gli eviterà rischi, ma è uno che all’annuncio del cast era dato fra i favoriti per un posto sul podio e invece rischia di  fare la fine dei primi Dear Jack. Di Alice Paba s’è già detto, su Bianca Atzei è incomprensibile l’ostinazione e finirà prima o poi per scontare con un tonfo sonoro la sovraesposizione mediatica. Le stecche, le imprecisioni, le interpretazioni sciatte, sono arrivate quasi sempre da giovani diventati big troppo presto e troppo in fretta. E invece – come ha spiegato proprio Michele Bravi alla Rai Social Room – bisognerebbe fermarsi un attimo e imparare a distinguere fra la musica e il mercato musicale. Forse allora anche Sanremo tornerebbe ad essere  davvero Sanremo.

 

Emanuele Lombardini

Giornalista, ternano, cittadino d'Europa, liberale. Già speaker radiofonico. Ha scritto e scrive di cronaca, sport, economia e sociale per giornali nazionali e locali per vivere; scrive di musica su siti e blog per sopravvivere.

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