United by hate, ovvero: l’Eurovision 2024, gli avvelenatori di pozzi e il punto di non ritorno

Mi sono avvicinata a Nemo, volevo congratularmi con lui, ma mi ha completamente ignorata”. A parlare è Eden Golan, la ventenne israeliana che ha rappresentato la sua tv Kan all’Eurovision 2024. L’intervista, la vedete qui sotto,  risale alle ore successive alla conclusione della finale eurovisiva ed è rimbalzata rapidamente nei media di tutta Europa

 

 

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Quello che è successo all’artista israeliana è la perfetta fotografia di quanto la questione palestinese sia profondamente divisiva ma soprattutto quanto continuare ad avvelenare i pozzi – da entrambe le parti – non solo alimenti una spirale d’odio rimasta nascosta per anni che aspettava soltanto di venire di nuovo scoperchiata, ma sia anche estremamente stupido e non aiuti affatto la causa che si vuole supportare.

La posizione personale sul conflitto

Ripercorrere quanto è successo dal 7 ottobre scorso in avanti è un esercizio che esula dalle finalità di questo sito. Pur tuttavia è necessario da parte di chi scrive mettere alcuni punti fermi. Il primo è che in questa storia non c’è un buono e un cattivo, bensì uno Stato aggredito da una organizzazione terroristica che poi ha trasformato il legittimo diritto a difendersi in un cieco sparare nel mucchio, cadendo nella trappola dell’aggressore.

Era proprio questo, infatti, che Hamas voleva, ben conscio che il governo di Netanyahu è alimentato da partiti dell’ortodossia ebraica fortemente anti-palestinesi: un’assurda pesca a strascico nella speranza prima o poi di centrare l’obiettivo, che avrebbe ben presto spostato gli equilibri internazionali sin qui pienamente a sostegno di Israele. Come in effetti sta inevitabilmente accadendo.

Chi scrive è convinto che la soluzione “due popoli, due stati”, sia l’unica che può condurre ad una quanto più pacifica soluzione della vicenda, ma anche che è un percorso lungo e complesso. Quello che però conta, per le finalità di questo sito, è spiegare come in fondo,  è stato proprio il contesto nel quale la partecipazione israeliana all’Eurovision si è mossa, ad aver costruito il quinto posto.

L’operazione rimozione e la disonestà intellettuale

Chi scrive continua a pensare che in condizioni normali “Hurricane” avrebbe lottato per il podio, per l’oggettivo valore artistico altissimo del brano e l’interpretazione da manuale di Eden Golan ma il voto delle giurie ha confermato che sarebbe bastato non fare niente, o semplicemente ignorare l’artista, per depotenziare il rischio di una possibile deflagrante vittoria.

Non c’è dubbio, infatti, che la “mobilitazione promozionale” attuata dal ministero degli Esteri di Israele abbia senz’altro aiutato al televoto. Però il processo che porta a quel risultato così impressionante comincia molto prima dell’Eurovision 2024 ed a costruirlo è stato proprio chi in questi mesi ha alimentato la battaglia opposta.

Anzitutto perché – come qualcuno ha scritto prima e meglio di chi state leggendo (l’amico e collega Davide Maistrello) l’equivalenza fra la Russia e Israele è intellettualmente disonesta. Da una parte uno Stato  sovrano che ne ha invaso un altro con l’intenzione di annetterselo; dall’altra uno Stato sovrano che – sia pure in maniera violenta e spropositata- si sta difendendo da un attacco terroristico.

Da una parte una tv (quella russa) che è la voce del Governo; dall’altra una tv che già da un anno Netanyahu sta cercando di chiudere proprio perché non dà abbastanza risalto al Governo e anzi fa persino vedere le manifestazioni di dissenso. Ecco quindi che regolamento alla mano, Israele aveva pieno diritto a partecipare.

In secondo luogo perché chi si è schierato – giustamente e in modo sacrosanto – al fianco del popolo palestinese massacrato non si è altrettanto schierato con gli israeliani uccisi da Hamas. Quella che è andata in scena è stata una assurda operazione di rimozione del 7 ottobre, come se non fosse stata quell’azione ad aver generato la risposta, benchè scomposta.

Pochissime, quasi nessuna, le prese di distanza da Hamas nelle tante manifestazioni che sono andate in scena (comprese le due a Malmӧ) mentre al contrario chi – come colui che state leggendo  – ha cercato di tessere le fila mettendo insieme tutte le pedine e tutti i punti di vista, è stato immediatamente tacciato di “sionismo”.  Eccolo dunque, il primo effetto: il ritorno di un antisemitismo strisciante che in fondo non se n’è mai andato, ma del quale almeno prima un po’ ci si vergognava.

Quei pochi che invece il 7 ottobre lo hanno ricordato, si sono affrettati a derubricarlo come una “conseguenza” di una questione mediorientale che si trascina da 70 anni.

Anche se questo fosse stato vero – ma non lo è: lo stesso Hamas, pochi giorni dopo l’attacco, lo ha contestualizzato diversamente– stride con la dichiarata vocazione pacifista di chi manifesta. Rispondere all’odio con l’odio, alla violenza con la violenza non conduce certo alla pace. Chi chiede la pace in Terra Santa, dovrebbe sventolare entrambe le bandiere. Mostrarne solo una è alimentare una narrazione di parte. E attenzione: questo vale per entrambe le fazioni.

Il vittimismo israeliano e gli autogol di chi contesta

A costruire il risultato di Israele sono stati – inconsapevolmente, sia chiaro – coloro che lo hanno contestato. Quelli che in arena, ma anche in sala stampa al Malmomassan- hanno fischiato Eden Golan o le hanno dato le spalle mentre cantava:

“Eden Golan non  è il nostro primo ministro, la stanno fischiando solo in quanto ha la nostra bandiera”

faceva notare a chi scrive un giornalista israeliano accreditato. Ed aveva ragione, perché le israeliane in gara erano due. Solo che la seconda, Tali Golergant, aveva la bandiera del Lussemburgo. Poco importa che quella performance fosse completamente israeliana (l’interprete, la direzione artistica, la produzione e persino l’intero concept della finale che aveva vinto): la bandiera era diversa, quindi niente fischi. Solo applausi.

Nè trova una giustificazione logica, per tornare all’assunto iniziale, che Nemo possa aver rifiutato le congratulazioni di Eden Golan per una questione di misgendering: se fosse vero – non voglio crederlo, Nemo è troppo intelligente –  sarebbe quantomeno sciocco e di certo non aiuterebbe la giusta causa del non-binarismo.

A costruire il risultato di Israele sono stati i cantanti stessi. Se non sei d’accordo con la partecipazione di Israele, scegli di non partecipare. Andare sul palco e fare volutamente casino per mandare in tilt un equilibrio già precario è una mossa stupida e controproducente e non poteva che essere benzina sulla narrazione vittimista che Israele aveva già iniziato a costruire rispetto alla sua partecipazione. Come se già non bastasse l’isolamento a cui Eden Golan è stata costretta, lontana da tutti (in un albergo a parte), chiusa in camera, scortata da 100 agenti di polizia e altri 7 del Mossad anche mentre cantava.

I gesti di Eric Saade, Loreen e Iolanda, in violazione al regolamento; le parole di Bambie Thug e Olly Alexander; la contestazione plateale di Marina Satti e Joost in conferenza stampa post semifinale mentre parla Eden Golan (la prima finge di dormire, il secondo si copre la bocca con una sciarpa), hanno avuto solo come unici effetti di alimentare quella narrativa e allo stesso tempo cercare la pancia dei fan.

Per tacere poi dell’ipocrisia di chi, è il caso di Käärjä, ha rifiutato di annunciare i voti in segno di protesta per la presenza di Israele, ma nei giorni precedenti ci aveva condiviso ben due palchi e si era persino fatto riprendere insieme a Eden Golan (infatti poi ha chiesto di rimuovere quei video, prendendo le distanze...due giorni dopo!). Pecunia non olet, evidentemente. O della selezione islandese, gestita dalla fandom in modo da far vincere un cantante palestinese così da mandarlo in contrapposizione ad Eden Golan e poi finita con Hera Bjork scaricata dalla sua stessa autrice, che ne ha chiesto invano la revoca della vittoria, a beneficio del rivale sconfitto.

O ancora, di quei sedicenti colleghi che nei loro articoli su siti e blog, anche importanti,  hanno “skippato” Israele e ogni giudizio sulla canzone, comportandosi come se non esistesse in concorso.

Gli errori israeliani e le prospettive future

Ma come si diceva sopra, qui non c’è un buono e un cattivo. E anche la tv israeliana ha le sue colpe in tutta questa vicenda. Non c’è alcun dubbio, infatti, che definire in diretta “amici di Hamas” e “figli e figlie del diavolo” i Paesi che si sono espressi contro Eden Golan non è meno contrario allo spirito del contest di quanto sia stato fatto dalla parte opposta.

Anche questo comportamento è figlio della mancata presa di distanze dai terroristi di chi si è schierato con la sofferenza popolo palestinese (e anzi, ha usato quella denominazione per l’altro fronte), ma è evidente che anche da parte israeliana non è stato fatto nulla per spegnere il fuoco. Vale lo stesso discorso fatto per la parte opposta e cioè è stato un atteggiamento probabilmente atteso e prevedibile visti gli attacchi che stavano continuando a ricevere, ma pure questo assolutamente stupido e controproducente.  Un gesto distensivo avrebbe invece disarmato chi contestava.

E anche questo, non c’è dubbio, è stato un errore. Potrebbe persino indurre EBU a sanzionare l’emittente a norma di regolamento, sicuramente non mette Kan in una buona posizione per il futuro. Perchè prima o poi EBU dovrà affrontare la questione, questo è certo.

Il punto adesso è proprio il futuro di Israele all’interno dell’Eurovision e prima ancora di EBU. Se malauguratamente da qui al 2025 la guerra dovesse essere ancora in corso o dovessere essere finita ma con l’occupazione completa di Gaza, a decidere le sorti di Kan saranno probabilmente i contesti internazionali. EBU è infatti l’organismo “politico” delle tv pubbliche e non si muoverà diversamente da quanto faranno gli omologhi istituzionali, che per ora stanno tenendo “dentro” il Paese proprio in virtù degli attacchi del 7 ottobre, ma che di fronte al rifiuto al dialogo da parte di Netanyahu sono sempre più tiepidi nel sostegno.

Se invece, come ognuno di noi spera, la guerra sarà finita e  Gaza sarà sotto il controllo internazionale, si porrà per EBU il problema di riabilitare agli occhi di una fandom eccessivamente politicizzata un Paese portato all’isolamento dal suo primo ministro. Per lsraele, comunque vada, sarà una lose-lose situation che pagherà a lungo. Per l’Eurovision in ogni caso è il punto di non ritorno. Serve un reset, non solo sull’aspetto geopolitico. C’è in ballo la credibilità (non il futuro…) di un concorso che ha ancora tanto da dire. E le potenzialità per farlo.

 

Emanuele Lombardini

Giornalista, ternano, cittadino d'Europa, liberale. Già speaker radiofonico. Ha scritto e scrive di cronaca, sport, economia e sociale per giornali nazionali e locali per vivere; scrive di musica su siti e blog per sopravvivere.

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